Sentii per la prima volta parlare di Wagamama una quindicina di anni fa quando mi trovavo per studio a Londra. Un mio amico lavorava nelle sue cucine e mi raccontava di questo ristorante giapponese dove non servivano sushi. Io allora di Giappone e cucina giapponese ne sapevo ben poco, e mi domandavo curioso (e un po’ scettico come spesso accade) cosa mai avessero potuto servire in un ristorante giapponese se non c’era sushi. Le modeste finanze di studente non mi permettevano certo di affrontare una simile spesa, in un’Inghilterra che col cambio dell’epoca era improponibile.
Sentii ancora parlare di Wagamama tempo dopo, in un’intervista ad Adam Tihany, l’architetto che ha progettato alcuni tra i ristoranti più esclusivi del pianeta tra cui Le Cirque 2000, Inajiku, il ristorante giapponese del Waldorf Astoria a New York, Spago a Chicago e il Bilba a Boston. Con uno snobismo proprio di simili personaggi, Mr. Tihany diceva che Wagamama lo aveva letteralmente stregato e lo definiva un “ fast food zen“, con ” tutto subito, perfetto, cibo fantastico, qualità perfetta”.
La cosa mi colpì, e mi rammaricai di non esservi mai andato al tempo di Londra. In Italia ristoranti della catena Wagamama non ce ne sono.
Qualche anno fa, ad Amsterdam per il matrimonio di un amico, mi trovai più volte a passare di fronte a Wagamama senza tuttavia mai riuscire a entrarci date le formidabili code di avventori che vi erano sempre all’ingresso in attesa del proprio turno. La cosa mi incuriosiva sempre più.
Finalmente quest’anno, affamati nel tardo pomeriggio dopo una lunga visita al Van Gogh museum che non è molto lontano, ci siamo trovati a passare davanti a un Wagamama finalmente semivuoto.
Quale occasione migliore.
Nonostante le solite vetrate satinate, le solite scritte minimaliste chiare e tutti gli altri elementi che denotano un ristorante giapponese chic, una volta dentro l’ambiente si fa più spartano: un “fast food zen”. A me in realtà ricorda più una grande mensa aziendale, con una serie di lunghi tavoloni e panche che corrono da una parte all’altra del grande salone.
Su un lato la cucina, con un bancone non troppo alto che la separa dall’area clienti pur lasciandola in buona vista.
I camerieri di varia etnia sono piuttosto rapidi, molto gentili e sorridenti, il che non è mai cosa da sottostimare.
Il menu offre numerose opzioni di stuzzichini, piatti principali (main dish come li chiamano da queste parti), noodle e dolci. La cosa che stupisce a una prima occhiata della lista sono i prezzi, che per un locale che ha tutto l’aspetto di una mensa aziendale più che di un “fast food zen” sono piuttosto eccessivi. Poco meno di 6 euro per una ciotolina di eda-mame mi sembrano davvero esagerati. In fondo sono fagioli bolliti nel loro bacello.
Ad ogni modo ordiniamo: tori no karage, ebi-gyouza, chilli-men yasai, cha-han con miso e tsukemono. Per un ristorante giapponese che non prepara sushi, dei piatti semplici della tradizione base e casalinga dovrebbero essere il loro cavallo di battaglia. Giusto per indulgere nell’esotismo ci lasciamo andare a un banana-katsu, che non è uno strano arnese per pratiche sessuali, ma intuiamo trattarsi di un dessert a base di banana fritta.
Tutto arriva piuttosto rapidamente. Dalla cucina a vista si sente il rassicurante spadellare di wok che preannuncia il nostro cha-han in preparazione.
Dopo i primi assaggi istintivamente mi guardo attorno per essere sicuro di essere nel posto giusto. E no diamine! Certo, “Japanese Restaurant” non è che sia scritto da qualche parte, o almeno così mi pare, però Wagamama è scritto inesorabilmente in katakana, e praticamente tutti i piatti del menu hanno nomi giapponesi. Insomma, Wagamama, c’è poco da fare, è un ristorante giapponese a tutti gli effetti, o almeno vorrebbe esserlo.
A mio, modestissimo, parere tuttavia i risultati sono scarsi. Sarà pure un “fast food zen”, ma di giapponese nella cucina non c’è niente.
I gyouza, più che i tipici ravioli a sfoglia sottile (a differenza di quelli cinesi) alla piastra, tipici della tradizione nipponica, sono più che altro degli involtini primavera formato mignon, impanati e fritti.
Il tori-no-karage è sì pollo fritto, ma con una pastella piuttosto spessa con dentro un’erbetta triturata che non dovrebbe esserci e che non riusciamo a capire cosa sia. I pezzi di carne sono tagliati troppo piccoli il che rende la carne troppo cotta e secca rispetto al più succoso karage originale.
Il miso shiru piuttosto scialbo. Certo, fare un miso-shiru cattivo non è facile, ma questo qui è tutt’altro che buono. Gli tsukemono anche non sono un granché, ma almeno sono veri.
Ma veniamo ai pezzi forti. Il cha-han è fatto con riso a chicco lungo, leggermente aromatico e di scarsissima qualità. Dentro, alla rinfusa, tocchi semicrudi di champignon anneriti, forse dell’erba cipollina, qualche pezzo di pollo, aromi vari. Più un generico “riso all’orientale” che un cha-han, e pure piuttosto scordinato.
Ma il peggio lo raggiungiamo con il chilli-men yasai. Un miscuglio di spaghetti scotti, affogati in una salsa a base di pomodoro dolciastro e con un retrogusto terroso. Dentro, senza arte ne’ parte, vi navigano dei pezzi di verdura con prevalenza di peperone, buttati lì così alla rinfusa. “Bara-bara” commenta la mia commensale giapponese: scombinato per dirla in italiano, e a voler essere onesti fino in fondo, al limite dell’immangiabilità.
Guardandoci attorno agli altri tavoli, pardon tavoloni, i piatti che mangiano gli avventori non hanno proprio un bell’aspetto, soprattutto quelli a base di tagliolini che vanno per la maggiore. Aspetto slavato e scotto e brodini scipiti. E questo era stato uno dei motivi per cui non avevamo dato alcuna possibilità ai ramen che pure apparivano ammiccanti nel menu.
Unica nota positiva il gelato alla vaniglia sulla banana impanata e fritta che ci hanno portato alla fine come dessert. Tra l’altro, in Giappone la banana fritta come dessert non l’ho mai vista.
Insomma, sempre per dirla con le parole della mia commensale, Wagamama è “Waga-ma-ma-“, ossia così così, e si sa che i giapponesi tendono ad essere molto diplomatici quando c’è da dare giudizi negativi.
Spesa finale poco meno di 60 euro in due (da bere abbiamo preso due birre), che per un fast food, che sarà pure zen ma sempre fast food è, mi sembrano eccessivi.
Anche la stella a cinque punte rovesciate nel logo incute una certa ansia.
Wagamama
Max Euweplein 10
Amsterdam
Tel. 020-5287778
http://www.wagamama.nl/