Da qualche anno ormai si sente nominare spesso anche da noi. Ha iniziato a fare la sua comparsa in ambiti più tecnici come corsi per sommelier e degustazione, poi sempre più sdoganata anche in articoli e trasmissioni popolari di cucina e prodotti tipici. “Umami” è una parola giapponese che significa letteralmente “gusto buono”. Oggi è così conosciuto che molti ristoranti giapponesi si chiamano umami.
La lingua giapponese permette di scrivere la stessa parola in modi diversi. Umami si può scrivere come nell’immagine, con i due ideogrammi di buono (旨) e gusto (味) assieme. Oppure si possono usare due caratteri fonetici per la prima parte (“buono”), e un ideogramma per la sola parola “gusto”: うま味.
In realtà la sfumatura di significato che i giapponesi danno alla parola “umami” è diversa dal semplice concetto di buono riferito al cibo, per il quale utilizzano invece la parola “oishii” (美味しい).
Qui da noi umami viene spesso definito il quinto gusto, poiché non è categorizzabile in uno dei 4 gusti base percepiti dalla lingua umana: salato, amaro, dolce, acido.
Alcune ricerche condotte su volontari sembrano indicare come l’umami venga percepito in un’ampia zona al centro della lingua. I ricercatori diedero da assaggiare ai partecipanti cibi ricchi di umami. Chiesero poi loro di individuare in quale punto della lingua avevano percepito quel gusto. In realtà studi più recenti smentirebbero i vecchi schemi come quello sopra, che suddividono la lingua in aree ben delimitate dedicate alla percezione delle singole sensazioni. I recettori dei vari gusti sono diffusi in tutta la bocca, con una lieve concentrazione in alcune aree della lingua. Inoltre esiste una forte componente di soggettività nella localizzazione delle sensazioni gustative.
Ad ogni modo, alcuni degli intervistati associavano l’umami al salato, altri dicevano di percepirlo in fondo alla lingua, in special modo dopo la deglutizione. Una buona parte lo definiva come un generale aumento delle percezioni gustative a livello di tutta la bocca. E non è un caso.
Esaltatore di Sapidità
In Giappone, il principio dell’umami è stato identificato e isolato. È il vituperato glutammato monosodico, o sale di sodio dell’acido glutammico per chiamarlo con il suo nome scientifico. Fu scoperto nel 1908 proprio da un chimico giapponese, il professor Kikunae Ikeda, che lo isolò nel kombu (Laminaria Japonica).
Il kombu è un’alga a forma di nastro, larga una ventina di centimetri e lunga svariati metri. Viene pescato, seccato e tagliato a listelle. È uno degli ingredienti base della cucina giapponese, usato proprio per insaporire brodi, riso, sughi e intingoli vari. Se ne usa un pezzo di 10-15 centimetri, messo a reidratarsi nell’acqua che servirà per fare il brodo base della zuppa di miso, del nabe o per cuocere il riso in bianco.
Tempo addietro divenne famoso in Occidente a causa di una dieta miracolosa a base di un suo infuso: il kombucha.
Una volta scoperto il principio del kombu, ben presto si scoprì anche il modo per produrlo industrialmente con un processo di sintesi chimica. Oggi il glutammato di sodio si trova sugli scaffali di tutti i supermercati giapponesi.
Lo sanno molti stranieri da poco residenti in Giappone. Quando fanno la spesa, non potendo leggere le etichette, scambiano spesso le boccette di glutammato di sodio per sale da cucina. L’effetto quando lo usano per la prima volta è piuttosto divertente.
Il glutammato monosodico è un aminoacido, uno dei componenti delle proteine. Sono proprio gli alimenti ricchi di proteine e aminoacidi liberi ad avere maggiore umami.
Oltre al kombu ci sono molti altri ingredienti della cucina giapponese utilizzati per la loro capacità di aumentare l’umami di una ricetta. La salsa di soia stessa è per molti versi un esaltatore di sapidità, i funghi shiitake, il katsuo (che assieme al kombu è fondamentale nella preparazione del brodo per il miso-shiru), il nori, le sardine secche (niboshi) e le cappesante disidratate. Sono tutti ingredienti che, nei mercati tradizionali e nei lussuosi department store giapponesi, hanno un loro banchetto o corner dedicato, quello del dashi, ossia del brodo base.
Umami VS Sapidità
Da noi ultimamente si sente parlare di umami con toni entusiastici che tradiscono una certa esterofilia. Molti chef-star si vantano di usarlo assieme al katsuo per prepare i loro piatti elaborati.
Si è anche sentito dire che nella cucina occidentale e italiana non vi sia mai stata piena consapevolezza dell’umami. E questo giustificherebbe l’utilizzo del termine straniero.
In realtà, non solo nella lingua italiana esiste un termine specifico per riferirsi a quello che i giapponesi chiamano umami, ma da sempre si usano certi ingredienti proprio per le loro capacità di esaltare naturalmente la sapidità di una ricetta.
Il termine italiano è “sapido“. Che è cosa ben diversa da “salato“.
I risotti sono così gustosi e sapidi proprio perché vengono preparati con grandi quantitativi di brodo e formaggio. I porcini secchi, il fumetto di pesce a base di gusci di crostacei, il parmigiano immancabile sulla pasta, i vini di lungo invecchiamento come Marsala e Sherry, il concentrato di pomodoro usato come fondo di molti piatti, sono tutti ingredienti ricchi di aminoacidi liberi, che hanno il compito di aumentare quella particolare sapidità che i giapponesi definiscono appunto umami.
Conoscendo gli interessi milionari dell’industria degli additivi alimentari, viene però anche qualche dubbio sulla genuinità di questa improvvisa moda dell’umami. Il sospetto è che tutta la campagna pro-umami serva a sfruttare la popolarità e il “glamour” della cucina giapponese per migliorare l’immagine del glutammato di sodio, onnipresente additivo alimentare, offuscata da recenti e controversi studi riguardo i suoi effetti sulla salute.